MODERNO E ANTICO. Architettura nei centri storici. Prima parte




di Alessandro De Sanctis

Gran parte del patrimonio archeologico storico paesaggistico artistico mondiale è localizzato sul territorio italiano. I nostri Centri Storici ma anche il paesaggio antropizzato fuori delle città rappresentano una testimonianza dell'incessante attività umana, intesa come ideazione e produzione nel corso del tempo.                                                      Berlino

Come confrontarsi con l'opera del passato? La conservazione e la tutela sono prioritari, sia per noi che per chi verrà dopo, ma come ci poniamo con le necessità della vita attuale? Come ci confrontiamo con un centro storico o un paesaggio e i bisogni attuali? Città come Roma e Venezia, per esempio, sono due casi differenti, nella prima è evidente il fluire del tempo, nella seconda l'unità storica e fisica dei manufatti è fortissima. Dagli etrusco-romani (e ancora prima) fino ai giorni nostri, a Roma è tutto un riutilizzo, una rifusione, un'eterna modifica, interi isolati, tracciati viarii, fondamenta, assi preesistenti, tutto si trasforma, le colonne romane affiorano dai palazzi medievali e rinascimentali, le chiese barocche si adagiano sulle chiese arcaiche e poi vengono smantellate (S. Maria in Cosmedin contenente la Bocca della Verità) per un malinteso senso di restauro, gli opifici dell'epoca industriale (e il relativo quartiere operaio di Testaccio) si innestano sulle aree degli antichi depositi (Horrea), il piccone demolitore del ventennio ha aperto strade al centro ricostruendo i fronti stradali con anonime, false e pseudo-severe quinte posticce annullando l'unità preesistente, distruggendo visuali e spazi pensati per un diverso contesto (vedi la Spina di Borgo davanti San Pietro o una delle tante piazzette sventrate dal Corso Vittorio Emanuele o da Viale Trastevere di cui rimangono solo insignificanti lacerti). L'architettura razionalista dei maestri Libera e De Renzi invece, con il Palazzo delle Poste a due passi dalla Piramide Cestia, ci permette di leggere con un solo sguardo l'uso del marmo in veste antica e moderna.
Ultime occasioni di dibattito sono due opere di Fuksas; una specie di grande lucernario decostruttivista davanti a San Carlo al Corso e la Nuvola del nuovo centro congressi al centro del più retrivo, marmoreo e piacentiniano Eur (che il simpatico sindaco romano vorrebbe ancora più pietroso, intimando nientedimeno che a Renzo Piano di aumentare le superfici lapidee dei suoi grattacieli trasformandi, poco lontani dalla Nuvola).
Da poco si erano spente (quasi) le polemiche sul museo dell'Ara Pacis (e relativo muretto coprichiesa) di Meier a via Ripetta, in cui la teca del poco fortunato Morpurgo aveva capitolato e quindi la discussione poteva vertere sia sulla qualità architettonica (poca ma sobria quella dell'originale contenitore vetrato, qualità non da poco visto che il contenitore dovrebbe forse non essere più evidente del contenuto) che sul colore politico del primo autore (o dello spirito dell'epoca, ammesso che ce ne sia e che sia uno solo).

Ora a Via Giulia, in uno slargo abbastanza indefinito, un gruppo di privati propone un Project-financing, ovvero la realizzazione con capitali privati di un'opera che si ripagherà (cioè ripagherà i suoi finanzatori costruttori) con i servizi dati loro in concessione, inizialmente doveva essere un grande parcheggio interrato ma dopo aver trovato resti romani (non era prevedibile? siamo in pieno centro), il parcheggio si riduce, si tutelano e espongono i resti e si realizza un albergo 4 – 5 stelle. A parte l'utilità per la popolazione di un ennesimo albergo di lusso il problema in questione è la presenza di un'opera del nostro tempo in quel luogo. Credo che il discrimine sia la varietà cronologica delle presenze nel sito dove si va ad operare, quindi nel variegato e frammentario caso romano non avrei difficoltà ad accettare un progetto che, nel rispetto delle volumetrie, delle altezze, di una certa discrezione di materiali e finiture, si inserisse con attenzione massima ai suoi vicini storici, anche nel rispetto assoluto delle funzioni, che dovranno essere compatibili al massimo con i luoghi, semprechè la scelta di lasciare il vuoto non fosse più coerente del suo riempimento. Il caso di un vuoto sopravvenuto a causa di una passata demolizione, non troppo storicizzata, potrebbe essere un'altro criterio positivo nel determinare la scelta di colmare quella lacuna, un po' come si attua il restauro pittorico, integrare la lacuna in maniera da ricostituire l'unità formale della figura senza approfondire nei dettagli, tenendosi quindi come in secondo piano, neutri ma presenti allo stesso tempo, rendendo palese, soprattutto da vicino, la differenza tra il Nuovo intervento di ricucitura e il Paziente ricucito.

In un contesto unitario e chiuso ad altre epoche come il cortile del Louvre, dove la piramide di vetro di Pei assolve alle funzioni di centro di raccolta e smistamento del pubblico, l'inserimento mi sembra azzardato, così come non capirei modifiche a Piazza Navona, Piazza del Campo o Piazza San Marco. Il Beaubourg di Parigi, nonostante Piano sia uno degli architetti che, soprattutto per la sua fase più matura, apprezzo maggiormente, e quell'architettura in sé importante e innovativa,, credo abbia determinato un'invasione acritica al pari del Vittoriano (la cosiddetta Macchina da Scrivere) al Centro di Roma; senza relazione col contesto, né per la sagoma nè per i materiali, un'opera pop di contestazione, ma fine a se stessa, poteva essere lì come nel deserto, e mi pare che per contrappunto, in tutte le sue opere successive, Piano sia diventato un maestro dell'inserimento di nuove architetture in contesti preesistenti, sia reali che legati alla memoria, vedi l'Auditorium di Roma che dialoga con il metabolismo naturomorfico del Palazzetto dello Sport di Nervi, o le coperture del complesso del Postdamer Platz con il dirimpettaio Scharoun e la sua magnifica Filarmonica, ridando inoltre vita, in planimetria, all'idea della città antica, con le sue vie e slarghi irregolari e vitali, con un dosato equilibrio di vuoti e pieni, di angoli irregolari e inaspettati come la natura.
In Nuova Caledonia con il Centre Culturel Jean Marie Tjibaou il maestro genovese riutilizza le leggerezze visive delle forme del legno e del bambù dei tropici, utilizzando legno, vetro e tiranti metallici, ridando fierezza ad un popolo invaso e ansioso di autonomia politica e culturale.

Posted by Francesco Saverio Simone on 13:46. Filed under . You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0

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