La grande bellezza di Paolo Sorrentino


di Gordiano Lupi


I giudizi contrastanti sull’ultima opera cinematografica di Paolo Sorrentino mi hanno convinto a non lasciarmi scappare la prima nazionale, che - potenza di una produzione Medusa - ha raggiunto persino la desolata landa in cui vivo. Ne potevo fare a meno? Forse. Credo di essermi perduto pellicole di gran lunga superiori, recuperate successivamente in televisione o sul mercato Home Video, ma in ogni caso ormai è fatta, inutile piangere sul latte versato.

La grande bellezza non è un capolavoro. Tutt’altro. In ogni caso presenta molti aspetti interessanti per un cultore di cinema. Fotografia eccellente, colonna sonora fantastica, tecnica registica che rasenta la perfezione, a base di carrelli, panoramiche e interminabili piani sequenza. Sorrentino è bravo, un vero maestro della tecnica, inutile negarlo, ma ce lo fa pesare come un Narciso innamorato della sua immagine. Il regista fa scorrere in lenta successione (il montaggio non è certo serrato) una serie di sequenze patinate per dimostrare un teorema scontato (siamo diventati tutti peggiori, la nostra società è in declino, Roma è la capitale del vizio…) ma soprattutto per esibire tutta la sua bravura. Non bisogna tacere che Toni Servillo è un interprete straordinario, ben calato nella parte di uno scrittore nottambulo e perdigiorno, che ha scritto un grande romanzo giovanile per poi abbandonare le velleità letterarie, di fronte alla scoperta della vacuità dell’esistenza. Fine dei pregi.

La grande bellezza è un film pretenzioso e arrogante, indisponente, irritante, mette di malumore anche lo spettatore meglio disposto ad accettare un’opera irrisolta, inconcludente, piena zeppa di buchi di sceneggiatura e basata su un soggetto inesistente. Il regista mette in scena la vita di uno scrittore maturo - unico personaggio al quale sia possibile affezionarsi - e ci presenta una Roma allo sbando, i salotti letterari inutili, la borghesia priva di valori, un campionario di varia umanità degradante. Sabrina Ferilli è una quarantenne spogliarellista - figlia di un padre debosciato - che non vuol abbandonare un’esistenza da eterna ragazzina, Isabella Ferrari (sempre affascinante) è una delle tante conquiste di Servillo, Pamela Villoresi (grande attrice) è una madre distrutta dal dolore, purtroppo sotto utilizzata, Serena Grandi rappresenta se stessa nei panni di un’attrice in totale disfacimento, Carlo Verdone conclude la carrellata come patetico scrittore deluso dalla capitale che sceglie di tornare in provincia. Tutto è eccessivo ne La grande bellezza, persino il dramma della perdita del figlio, anche il funerale senza amici pieno di convenzioni e frasi fatte, per non parlare di tutta la parte finale incentrata sul personaggio di una suora ultracentenaria che compie imprese sovrumane per dimostrare l’importanza di vivere per uno scopo. I paragoni con Fellini sono sprecati, ma se proprio si devono fare non è La dolce vita ma Otto e mezzo il parametro da usare, anche se nel film di Sorrentino manca tutta la poesia fiabesca del grande autore riminese. Realismo e surrealismo si confondono nel nulla più assoluto, in un delirio di piani sequenza che fa venire a mente le zumate di Jess Franco, perché quando è troppo, è troppo, pure l’esagerata ambizione di concepire un’opera d’arte. Molto spesso capita che la troppa convinzione di scrivere un capolavoro faccia abortire persino la possibilità di girare un film dignitoso. Fare cinema non è soltanto sfoggiare tecnica fine a se stessa, ma anche - e soprattutto - raccontare una storia, e attraverso la storia, far venir fuori il messaggio (ma non è fondamentale). Se tutto si riduce a messaggio e tecnica, a mio modesto avviso, il regista ha fallito lo scopo, ha sbagliato linguaggio, forse non doveva fare cinema ma saggistica, narrativa sperimentale…

La grande bellezza che il protagonista non ha trovato, rassegnandosi a non scrivere più romanzi, è la stessa che lo spettatore cercherà invano tra immagini patinate e lunghe carrellate sul Tevere, spettacolari sequenze di una Roma al risveglio e piani sequenza che sfumano in dissolvenze artistiche, consapevoli della loro bellezza. Tutto il resto è flashback, direbbe Jess Franco, che è morto un mese fa e l’ha ricordato solo Nocturno. Non è con questi film che risorgerà il cinema italiano.

Posted by Francesco Saverio Simone on 02:30. Filed under . You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0

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