RITRATTO DI UNA CITTA’ IN GRIGIO E NERO: LA PITTSBURGH DI EUGENE SMITH


CONSIGLI DI FINE ESTATE  DA SAURO SASSI 

RITRATTO DI UNA CITTA’ IN GRIGIO E NERO: LA PITTSBURGH DI EUGENE SMITH



Bisogna anzitutto ringraziare Isabella Seragnoli, imprenditrice bolognese, a capo di un gruppo multinazionale di aziende di macchine automatiche per il packaging e sistemi di controllo ad alta tecnologia, incentrato sulla storica GD. La Seragnoli, oltre a numerose attività filantropiche rivolte all’assistenza di persone affette da malattie incurabili o disturbi alimentari, ha creato la Fondazione Mast, Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia che, oltre ad attività di welfare aziendale (asilo, mensa, formazione), ha realizzato un edificio nuovo, a ridosso della storica sede della GD, nel quartiere operaio di Santa Viola, che funge da museo interattivo dell’industria di innovazione, centro didattico per la creatività dei bambini (con laboratori condotti dal grande fotografo Nino Migliori), sale per congressi e proiezioni cinematografiche e sede espositiva per mostre dedicate al rapporto tra industria e fotografia. La direzione delle attività espositive è stata affidata allo svizzero Urs Stahel, che, dal 2013, ha dimostrato, con una serie di bellissime mostre, che il tema della fotografia industriale è tutt’altro che arido e che molti grandi fotografi vi si sono cimentati, da tante angolazioni diverse.
A mio parere la mostra attuale è la più bella finora presentata, perché riguarda uno dei più grandi fotografi di sempre: William Eugene Smith. Smith, statunitense, cominciò a fotografare molto giovane (era nato nel 1918) e si occupò di reportage, lavorando per riviste importanti come “Life”. In particolare, partecipò alla seconda guerra mondiale sul fronte giapponese, documentando la vita militare e riportando, nella battaglia di Okinawa, gravi ferite. Dopo una lunga convalescenza ricominciò a lavorare per le riviste, ma l’esperienza della guerra fece maturare in lui il desiderio di realizzare i suoi scatti con una grande partecipazione empatica e cercando sempre una documentazione che non fosse superficiale ma che esprimesse l’umanità dei soggetti. Si può dire che si muoveva un po’ all’opposto di un Cartier Bresson, che cercava di catturare la poesia di un attimo irripetibile. Smith, invece, cercava di congelare il tempo e di realizzare lavori che avessero un senso per la loro unitarietà, espressività, narratività. Pensava che per rappresentare il senso della sua opera occorressero una stampa perfetta, così come l’impaginazione, non curandosi dei tempi tecnici delle riviste e della loro necessità di presentare immagini dal forte impatto emotivo. Così si rese indipendente, sacrificando al rigore e all’esclusività della ricerca fotografica anche gli affetti famigliari e la sicurezza economica. Nel 1955 gli fu richiesto di eseguire un lavoro di un paio di mesia Pittsburgh, per documentare questa città industriale. Smith impiegò invece oltre due anni, ricavò migliaia di scatti e alla fine riuscì solo molto parzialmente a mostrare il risultato del suo operare. Perché decise di mostrare in modo definitivo non i singoli abitanti, determinate angolazioni sociologiche, ma l’intera città come fosse stata un unico organismo, che viveva e si sviluppava nelle sue contraddizioni. Città industriale, meta di immigrazione da tutta Europa (nel 1949il giovane Andrew Warhola, di genitori slovacchi, mosse da qui per andare a New York e diventare Andy Warhol) e dal sud degli Stati Uniti, dove ancora imperversavano il razzismo e il Ku Klux Klan. Pittsburgh, situata alla convergenza di due fiumi, che formavano qui il fiume Ohio, era stata la città del carbone e poi divenne la città dell’acciaio. Gli altiforni lavoravano 24 ore su 24, emettendo fumi e fiamme, soprattutto di notte. Smith ci mostra una città in grigio e nero, con un cielo che non aveva nuvole se non di fumo; e i volti degli operai assumevano tutti lo stesso nero colore. Con questi toni Smithtentava di catturare l’essenza della città, cercando, come diceva, di pensare attraverso la fotografia. Lo stesso tono scuro uniforme circondava anche i quartieri residenziali, i luoghi di divertimento. La foto inchiodava le persone e le cose, le raggelava e le rendeva eterne. Anche un tuffatore fermato a mezz’aria pareva non dover mai uscire da quella posizione, immobile come un metafisico monumento al giocatore di baseball. Il suo lavoro su Pittsburgh è più di un’indagine sociologica, anche se non si può non notare che in certi quartieri, in certe abitazioni, nelle sale del sindaco e del consiglio comunale tutti sono di razza bianca mentre in quartieri poveri, nelle acciaierie la maggioranza sono neri. E i bambini sembrano gli unici a introdurre un elemento gioioso a rompere la grigia uniformità cittadina. Le 170 fotovintage provenienti dalla Carnegie Library of Pittsburgh vanno viste e riviste perché hanno ancora moltissimo da dire su come si può lavorare con questo strumento che, mai come in Smith, scrive sì con la luce ma anche con le ombre e il buio.
“Sto cercando ciò che è veramente reale nel mio cuore: e quando l’avrò trovato potrò stargli umilmente a fianco e dire: ecco qui, questo è ciò che sento, questa è la mia onesta interpretazione del mondo; e non è influenzata dal denaro, da inganni o pressioni, tranne la pressione della mia anima”. (Eugene Smith).

 SAURO SASSI



W. EUGENE SMITH: PITTSBURGH RITRATTO DI UNA CITTA’ INDUSTRIALE. FINO AL 16/9.  MAST BOLOGNA, VIA SPERANZA, 42. DAL CENTRO AUTOBUS N. 19 FERMATA “CENTRO VITTORIA MAST” ALL’INIZIO DI VIA SPERANZA POI 100 METRI A PIEDI
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